Ombre Mosse

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Bertolucci, i sogni e la nostalgia dell’imperatore

November 27, 2018 by Filiberto Molossi in Protagonisti, 2018

Non sembrava preoccuparlo il destino del cinema, così come lo conosciamo: forse perché sapeva, in cuor suo, che qualcuno - come lui -  i film, in qualche maniera, avrebbe sempre continuato a farli. E ci sarebbe sempre stato qualcuno che - come noi - avrebbe avuto voglia di vederli. «Non ho idea di cosa ci riserva il futuro - mi disse una volta  -, forse un giorno le sale non esisteranno più: ma sono convinto che i film non moriranno. Magari li vedremo proiettati sul volto di chi amiamo». Qualcuno ieri ha scritto che Bernardo Bertolucci ci ha lasciati. Non sono d’accordo: credo piuttosto che, semplicemente, se ne sia andato. Ma ho la presunzione di credere che non ci lascerà mai. Non ci lasceranno i suoi film, le sue visioni, il suo modo, unico di impressionare la pellicola. Né ci abbandonerà  la capacità di emozionarci nel rivedere Brando morire o la Sanda e la Sandrelli ballare. L’ho capito l’altro giorno, a Torino, durante il festival del cinema: guardando «Pretenders», l'ultimo film di James Franco, divo cinephile,  uno a cui fanno la posta ragazzine che forse non hanno mai nemmeno visto un film di Bertolucci. Che però l'attore e regista hollywoodiano  nel suo film cita in continuazione, così come Godard e Truffaut: giganti di quel cinema anni '60 che del cinema stesso cambiarono la morfologia, la grammatica, la sintassi. Il ragazzino di Baccanelli cresciuto ascoltando il padre Attilio dettare al telefono, a braccio, le recensioni alla «Gazzetta» scrittura gli amici di infanzia per «rifare» i film che ha appena visto: nella Parma che, faticosamente, semina sogni là dove poco prima c'erano le macerie della guerra, la campagna assomiglia a un enorme set. Scrive poesie, riceve premi, ma sceglie presto, ancora giovanissimo, il cinema. Forse perché ha già capito che è quel posto dove se «chiedi un treno te lo portano davvero». Nello sguardo del bimbo che si nasconde per vedere il maiale morire - il suo, primo, folgorante cortometraggio - c'è già la promessa di qualcosa di grande, la scoperta, violenta di uno stupore che forse è il medesimo di quello di un altro bambino, migliaia di chilometri e molti anni più in là, davanti a cui tutti si inginocchiano nella città proibita. Prima però c'è tempo di scambiare Pasolini per un ladro: gli chiude la porta in faccia, ma lui non se la prende. «Dici che ti piace il cinema, fammi da aiuto regista». Sul set, Bertolucci arriva dalla porta principale: iil film è «Accattone». da lì in poi si fa sul serio: c'è l'esordio con «La commare secca», solo apparentemente pasoliniano ma che in realtà già si distacca dall'amico-maestro. E' con «Prima della rivoluzione», girato a Parma, però che Bernardo diventa Bertolucci. Ha solo 22 anni, è sfrontato e incosciente al limite dell'arroganza e soprattutto incompreso: i critici italiani - che non ne comprendono il già limpidissimo talento - lo stroncano, i francesi però lo esaltano. Ancora oggi resta uno dei film più belli di sempre sul tormento di essere giovani: capace di parlare ai  ragazzi di oggi con la stessa modernità con cui si rivolse a quelli di mezzo secolo fa. C'è chi lo consiglia di rimettersi seduto: lui invece insiste. E firma capolavori, personali e politici, come «Il conformista» e «Strategia del ragno». Per poi girare il film che cambia tutto, «Ultimo tango»: l'anteprima a Parma è per pochi, la saracinesca del cinema abbassata, il fumo di decine di sigarette che rendono quasi nebbiosa la fotografia di Storaro. «Ruppe tutte le regole», ricordò il maestro l'ultima volta che venne a Parma: il rogo, la condanna al carcere (con la condizionale), la privazione per 5 anni (che follia...) dei diritti civili. Più scandalosa la sentenza che non il film. Ma poco importa: il successo è globale, pazzesco. Solo in Italia lo vanno a vedere 15 milioni di persone:  per capirci «Titanic» non è arrivato a 9... E' il momento che Bertolucci può tutto: lo stesso in cui decide di girare l'epopea padana e indimenticabile di «Novecento». Lo sguardo si fa epico, la storia privata diventa quella collettiva, comune. Si capisce già allora - mentre nella piccola capitale arrivano De Niro, Depardieu e  Burt Lancaster - che  Parma non potrà essere il suo ultimo approdo. L'orizzonte si allarga, le mete sono la Cina, il deserto, l'America. Arriva l'Oscar (unico italiano a vincere quello per il miglior film), ma Bernardo continua a ballare ostinatamente da solo: il suo cinema non ha paragoni, ha padri (rinnegati e non), ma non ha figli. E' rimasto sino all'ultimo il dreamer, il sognatore, degli inizi: cinefilo borghese e ribelle più forte persino della malattia che lo aveva confinato su una sedia a rotelle. Capace di rinchiudersi in una cantina per sparare Bowie tradotto da Mogol a tutto volume. Continuava a parlare del futuro, Bertolucci, a pensare a un altro film, a una nuova avventura: era l'ultimo maestro, ma il primo nella fila degli entusiasti.  Un uomo capace di gesti e gentilezze imprevedibili: come quella volta che mi chiamò al telefono per ringraziarmi per quello che avevo scritto su sua madre, rosa bianca che aveva piegato, per sempre, il suo gambo. Diceva: «Il cinema è la nostalgia per qualcosa che non abbiamo mai vissuto». Buon viaggio, imperatore.

November 27, 2018 /Filiberto Molossi
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Protagonisti, 2018
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L'abito fa la Carrà: tutti i vestiti della Raffa nazionale, l'ombelico del mondo

July 12, 2018 by Filiberto Molossi in 2018, Protagonisti

Forse ha ragione Pedro Almodovar, uno dei suoi fan più celebri ma anche più accaniti: <Non è una donna, è uno stile di vita>. L'ombelico del mondo, la showgirl totale, la ragazza che si faceva beffe della censura ballando, in epoca ancora assi repressa, il tuca tuca. La stessa, che anni dopo, sfidava gli italiani a indovinare quanti fagioli ci fossero in un barattolo. Un fenomeno di costume la Raffa nazionale, nata Pelloni e poi ribattezzata Carrà. Immutabile quanto il suo famoso caschetto biondo, amata dalle casalinghe e dagli intellettuali, icona gay e rassicurante volto tv, imitata, copiata e ammirata, oltre che remixata (con vista sull'Oscar) persino da Bob Sinclair. Fedele a se stessa, Raffaella Carrà, sempre: ma abbastanza coraggiosa da reinterpretarsi puntata dopo puntata, abito dopo abito. Un calcolo approssimativo rivela che nella sua lunga carriera abbia indossato oltre tremila vestiti: tanti, tantissimi. Ora una mostra – la prima che il mondo della moda le dedica - ne mette insieme circa 40, tra cui alcuni dei più emblematici: quelli, che più di molte parole, raccontano e spiegano la costruzione del <fenomeno Carrà>. Le audaci creazioni degli anni '70 che poco lasciavano all'immaginazione, le cascate di luccicanti paillettes, le minigonne di pelle: il rosso delle dive, l'oro delle star e poi, ovviamente, il bianco e il nero. E ovunque la stessa voglia di osare, di stupire. C'è molto di Raffaella Carrà in <Iconoclasti>, l'esposizione (aperta fino a domenica nel Teatro 1 di Cinecittà, a Roma) che studia lo stile di una delle regine della tv (ancora oggi, 75enne, in auge) nell'opera di costumisti e couturier che ne hanno alimentato il mito: dai grandi – per citarne solo alcuni - Danilo Donati e Piero Tosi a Corrado Colabucci, passando per Luca Sabatelli e per le felici incursioni di stilisti quali Renato Balestra e Gattinoni.

Curata e allestita da Fabiana Giacomotti, autrice e direttore scientifico del master in Teoria e strategie della moda a La Sapienza, specialista di costume televisivo, con la collaborazione di Annalisa Gnesini, giovane curatrice che ha collaborato a numerose mostre di moda e costume in Italia e all’estero, <Iconoclasti>, uno dei pezzi forti dell'ultima edizione di Altaroma (dal cui sito è tratta la foto, di G. Palma / Luca Sorrentino), <spoglia>, attraverso abiti, accessori, oggetti, video (selezionati tra oltre 19mila contributi di Rai Teche), foto, e i bozzetti dei più grandi costumisti televisivi e cinematografici, i segreti di una donna che, tra eccessi e ironia, divenne di moda più della moda stessa. Quaranta costumi selezionati fra oltre quattrocento, provenienti dall’archivio storico della Rai, di Annamode, della sartoria The One, e di Collezioni Carrà di Giovanni Gioia e Vincenzo Mola, di cui la maggior parte mai esposta fino ad oggi, che permettono di stabilire connessioni e identificare le ricorrenze formali del fenomeno Carrà, capace di influenzare, a sua volta, con il suo dinamici e moderno portamento, stilisti di ogni epoca. Una mostra-tributo a cui Raffaela non ha voluto (almeno all'inaugurazione) essere presente: pare abbia detto che oltre ai vestiti c'è di più. E' certamente vero: ma questi costumi, nel mondo in cui l'abito fa ancora il monaco, non l'hanno abbandonata, in qualche modo ancora la <posseggono, la rappresentano. E la raccontano: tanto quanto i suoi programmi, le sue canzoni, i suoi, eterni, sorrisi.

July 12, 2018 /Filiberto Molossi
Gattinoni, Luca Sabatelli, Bob Sinclair, Raffaella Carrà, The One, Renato balestra, Fabiana Giacomotti, Rai, Danilo Donati, Annamode, Pedro Almodovar, Piero Tosi, Altaroma, Iconoclasti
2018, Protagonisti
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Quel giorno a Sanremo: voleva fare l'attore l'uomo che cambiò la storia della canzone

February 08, 2017 by Filiberto Molossi in 2017, Protagonisti

Ci sono momenti che cambiano tutto: istanti che restano scolpiti nella memoria collettiva. L'urlo di Tardelli al mundial dell'82, il giorno che rapirono Moro, Pertini a Vermicino e quella diretta che non finiva mai. E poi quella sera del '58, sul palco di Sanremo: fino allora erano state solo canzonette. Poi in scena arrivò lui: "Penso che un sogno così non ritorni mai più". Era la pura verità: niente fu più uguale. Quando Modugno al Festival allarga le braccia la musica italiana cambia per sempre: è il segnale della svolta. Si comincia a Volare: felici di stare lassù.  Primo cantautore nella storia di Sanremo, con "Nel blu dipinto di blu" Modugno rivoluziona la sintassi della canzone italiana, rompe con regole e arrangiamenti della musica tradizionale e forte di un successo planetario (resta da allora l'unica canzone italiana capace di raggiungere il primo posto nella classifica Usa) riscrive il ritornello della Storia. Ha solo 30 anni anche se non sembra un ragazzo già da un po'. Quello che forse non tutti sanno è che l'uomo che cambiò per sempre la canzone italiana era partito per fare l'attore. Bella faccia e piglio deciso, Modugno che al paesello faceva teatro, una volta a Roma vince un concorso per attori dilettanti. E bussa al Centro sperimentale. Al provino tutti portano un pezzo famoso: chi Shakespeare, chi Pirandello. Chi, alla peggio, una poesia. Lui, davanti a Luigi Zampa (quello di "Anni difficili") e di tanti altri film, racconta invece una barzelletta, una storiella. Che neppure fa tanto ridere: ma lo vedi da lì, da come prende una sigaretta, dalla sua disinvoltura, che quel pugliese ancora senza baffi sarebbe diventato, in un modo o nell'altro, qualcuno. Di film Modugno, poi, ne ha fatti diversi, non solo musicarelli, ma non sarà ricordato per questo: ma soprattutto perquel giorno, quello in cuiallarga le braccia. Dove è insieme cantante e attore: e, immediatamente, riconoscibilmante, mito.

A proposito, il provino lo trovate a questo indirizzo: http://www.radio3.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-ffc1832e-4bea-41a2-a2d8-8a600549cf7b.html

February 08, 2017 /Filiberto Molossi
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Quella volta con Michael Cimino, il ribelle che Hollywood odiava

July 04, 2016 by Filiberto Molossi in 2016, Protagonisti

Credo che quella sera pensasse di cavarsela con poco: un saluto, un bel discorso, una citazione, splendida per altro, dell'amico Bertolucci - il cinema è la nostalgia per qualcosa che non è mai esistito -, e ciao arrivederci. E invece no. Invece, andò diversamente. Un po' perché sul suo cammino quel piccolo grande uomo con cappello da cowboy e occhiali da sole alle 21 e passa di sera trovò un giornalista pazzo - io, per servirvi -che gli raccontò di essere cresciuto con la locandina de "Il cacciatore" sopra al letto: e soprattutto perché a sentirlo e vederlo era venuta un sacco di gente che gli voleva bene davvero, che lo considerava un genio assoluto, che era dalla sua parte più di quello che forse lui avrebbe mai pensato. L'unica volta che ho incontrato e intervistato Michael Cimino è stato esattamente undici anni prima della sua morte: era un 2 luglio anche allora, all'arena dell'Edison di Parma, ma del 2005. il suo film più recente (che poi sarebbe rimasto l'ultimo) era già di 9 anni prima: ma per tutti era ancora il regista de "L'anno del dragone" e de "I cancelli del cielo". Un mito. Che arrivò accompagnato dalla sua leggenda e dalla sua maledizione. Metteva soggezione nonostante fosse alto un metro e 65 circa: la pelle sembrava finta, di porcellana, gli occhi invisibili dietro quegli occhiali. Ma si sciolse ai primi applausi: finì con abbracci fraterni al sindaco di allora, pacche sulle spalle agli spettatori, calorose strette di mano, baci alle ragazze. Sì, insomma: un trionfo. Disse, in breve tempo (doveva tornare a Bologna), molto sul cinema, l'arte, il coraggio. Anche quello di chi amando sopra ogni cosa ilcinema, dal cinema era stato messo da parte: fuori gioco, ai margini, in castigo. Lui, il regista anarchico e ribelle che lottò sempre, inquadratura dopo inquadratura, contro il sistema e la politica degli studios: che aveva ancora molto da dare, anche se nessuno o quasi lo ascoltava più. . Pagò per sempre l'insuccesso   de «I cancelli del cielo», western epico e inedito che portò al collassola United Artists. Divenne un «paria», lui che solo due anni prima aveva girato un film leggendario (devo rammentarvi la sequenza della roulette russa?) come «Il cacciatore». Eppure Hollywood gli rese sempre la vita difficile, difficilissima: nella sua carriera è riuscito a girare solo 7 film, alcuni immortali, altri sicuramente meno riusciti. Gli chiesi se continuava ad amare «Il cacciatore» - il suo filmpiù famoso, quello che gli aveva regalato l'Oscar -, come la prima volta, quando lo aveva girato: «Si può amare la stessa donna due volte nello stesso modo? Un amore speciale - disse - è davvero un amore speciale. Non credo che un sentimento così possa essere ripetuto o rivissuto, ma può essere sostenuto e alimentato». Fu una sera di carezze, bella forse anche per lui: ospite della fondazione Solares per ricevere il premio speciale per l'Eccellenza artistica, Cimino rivelò di avere parlato poco prima con Bernardo Bertolucci: «E’ un vecchio caro amico. Penso che, insieme a Polanski, sia il miglior regista al mondo. La mia ammirazione per lui è senza limiti. Mi ha consegnato - disse sorridendo alla platea - le chiavi della città. Mi ha detto: “Dì che hai parlato con me e che, per un’ora, ti ho dato il permesso di fare a Parma tutto quello che vuoi". Oggi il sindaco sono io». Era un gigante, il guerriero visionario di storie virili,  il cavaliere solitario di una contro America che cercava, anche nella notte più fonda, il sole:  pagò per tutti, sempre più del dovuto. Ma resta il simbolo di una storia americana. Maledetta, forse: ma che è impossibile non amare.

July 04, 2016 /Filiberto Molossi
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L'ultimo round: la malinconia di Ali e quell'incontro con Rocky

June 04, 2016 by Filiberto Molossi in Protagonisti, 2016

Ci sono mille modi per ricordare the greatest, il più grande di tutti. Perché dire che Muhammad Ali è solo un pugile (sì, certo: anche il migliore di sempre) sarebbe come affermare che i Beatles erano quattro ragazzini che cantavano canzonette o che Hitchcock era un tizio sovrappeso che girava gialli. Più che davanti a una leggenda dello sport qui siamo davanti a un'icona del XX secolo, forse l'ultimo vero grande mito (giunto all'ultimo, inesorabile, round) del mondo prima di Internet, dello smart phone e della paella vegana. E allora bisogna celebrarlo per bene. Ecco, io un paio di film da suggerirvi ce li avrei.

Un documetario molto bello, ad esempio, che ha già 20 anni ma non li dimostra: "Quando eravamo re".  A finirlo, il regista Leon Gast ci ha impiegato 22 anni: prima pensava di farne un film sul concerto che doveva precedere l'incontro del secolo, quell'Ali vs Foreman ribattezzato Rumble in the jungle. Poi ha capito che del concerto non fregava niente a nessuno: e ne ha fatto uno splendido ritratto - politico e carismatico - dell'uomo che sul ring danzava come una farfalla.

Ma soprattutto, quello che ci piace ricordare è l'originale biopic che alla figura (anche culturalmente, oltre che socialmente) mastodontica di Cassius Clay ha dedicato Michael Mann. Uno che, tanto per dire, ha girato film come "Collateral", "Insider", "Heat".  "Alì" è uno dei suoi film più sottovalutati: ed è un peccato. Lo osteggiarono da subito, specie perché la parte del protagonista era andata a Will Smith, uno famoso fino a quel puntoper "Men in black" e "Il principe di Bel Air" . In realtà è un bellissimo film,  denso e scomodo come tutti quelli di Mann. Che a un personaggio già così raccontato, sviscerato, rimodellato, ha donato una luce diversa: una sorta di indecifrabile malinconia. Fateci caso: per tutto il film, nei trionfi come nelle cadute, nella gioia come nella rabbia, nello sguardo di Will Smith/Ali c'è un riflesso di tristezza. Un senso di rimpianto, una fitta sotto pelle. E' una lettura inedita e potente di chi, a volte, sembrava agli occhi meno attenti solo uno sbruffone, un provocatore.

Che poi vinceva perché - come ha spiegato Nino Benvenuti, uno che ne ha date e ne ha prese - non era solo il più forte: ma, soprattutto, il più intelligente. Abbastanza da essere, quando serviva, anche spiritoso: come alla cerimonia degli Oscar del 1977, quando sul palco salì Sly Stallone, reduce dal successo di "Rocky". Guardate il video per vedere cosa successe...

June 04, 2016 /Filiberto Molossi
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Protagonisti, 2016
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